[trad. it. di V. Mantovani, Einaudi, Torino 2013]
A venticinque anni dall’apparizione americana, Einaudi torna a pubblicare – dopo l’immediata traduzione italiana per le edizioni Leonardo del 1989 – I fatti. Autobiografia di un romanziere, la prima di quattro opere autobiografiche scritte da Philip Roth tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, che compongono un’altra tetralogia sui generis (dopo la “trilogia con epilogo” dedicata al personaggio di Zuckerman) che comprende Inganno (1990), Patrimonio. Una storia vera (1991) e Operazione Shylock: una confessione (1993). Inizialmente, come testimoniano alcuni appunti dello stesso autore conservati alla Library of Congress, le quattro opere avrebbero dovuto far parte di un unico volume intitolato Two Faced. An Autobiography in Four Acts, a causa della tematica autobiografica che sembrerebbe caratterizzare i quattro romanzi.
Eppure, ogni opera si differenzia proprio per il modo in cui l’elemento autobiografico viene stravolto e messo in discussione. Si tratta di una stagione intermedia nella produzione rothiana, successiva alla sperimentazione condotta sulla biografia di Zuckerman, e anteriore ai grandi romanzi degli anni Novanta (Pastorale americana e La macchia umana); una fase in cui Roth sembra cercare di comprendere e di risolvere la dicotomia che percorre la sua intera produzione: il rapporto tra realtà (autobiografica) ed immaginazione finzionale – «in passato, come sai, i fatti sono sempre stati brevi appunti su un taccuino, il mio modo di scattare dalla realtà alla fantasia». Con I fatti, però, nonostante la volontà di rincorrere «l’originaria fattualità preromanzesca», il lettore sin dall’inizio comprende che per giungere alla verità a Roth è necessario nuovamente ricorrere alla finzione.
Il romanzo è composto da un lungo “manoscritto” di memorie che lo scrittore invia al proprio alter ego per eccellenza, Nathan Zuckerman, affinché questi si esprima sul valore dell’opera e sull’opportunità della sua pubblicazione. Nella lettera che anticipa il testo, Roth afferma di non essere interessato a dimostrare lo «scarto significativo» tra lo scrittore autobiografico che tutti pensano egli sia e lo scrittore autobiografico che sente di essere. Lo scopo reale del testo secondo l’autore sarebbe quello di «riprendersi la vita», dopo un esaurimento nervoso che nel 1987 aveva rischiato di condurlo al collasso, come uomo ma soprattutto come scrittore; la scrittura si offre, dunque, come «spontanea reazione terapeutica» alla malattia. Il centro dell’opera ruota dunque intorno al tentativo di Roth di comprendere «ciò che una volta mi pareva ovvio: perché faccio quello che faccio, perché vivo dove vivo, perché divido la mia vita con la persona con cui la divido»; ricercare le ragioni profonde, soprattutto, che lo hanno condotto a dedicare la propria esistenza alla scrittura.
Questo bisogno di indagine viene portato avanti da Roth attraverso la rievocazione della propria giovinezza, passando per l’infanzia e l’adolescenza di Newark, la fuga verso l’università e la scoperta della propria autonomia, in particolar modo affrontando i due temi centrali di tutta la sua narrativa: l’esplorazione del desiderio erotico («come se scopando volessi scoprire l’America», affermava d’altronde vent’anni prima Portnoy) e dei territori della scrittura. I fatti sono dunque il racconto della maturazione di Roth, della lotta antagonistica con il mondo – caratteristica dei suoi personaggi – vissuta in prima persona dall’autore.
Eppure l’ultima parola spetta alla finzione, a Nathan Zuckerman, e si traduce in una stroncatura del manoscritto, che rappresenterebbe il fallimento di Roth come narratore autobiografico, vittima delle proprie inibizioni. Perché è solo nella finzione che è possibile ricercare una sincerità più profonda dell’adesione alla realtà, una verità che oltrepassa la falsa dicotomia tra fedeltà ai fatti ed invenzione. La letteratura, ne era convinto Francesco Orlando, è il luogo dove è possibile il ritorno dei desideri che una società condanna alla repressione. Zuckerman, da par suo, sembra ricordare a Roth come l’invenzione, per uno scrittore, sia l’unica via possibile per la sincerità.
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